L’ultima avventura

Reportage Da Locarno a Ipswich: in viaggio con un aeroplano monomotore attraverso la Svizzera, la Germania e la Francia fino in Inghilterra.

PETRUSKA MAGAZINE

Prima parte, la partenza. Da Locarno a Freiburg im Breisgau

Era domenica quando, nel corso di una passeggiata sul Monte Brè, ho sentito il rombare sordo di un motore sopra di me. Ho alzato la testa e ho visto un piccolo aereo curvare allegramente nel cielo pomeridiano. Veniva da sud e stava girando verso ovest, per poi scomparire, sorvolata la città di Lugano, dietro le colline per l’atterraggio all’aeroporto di Agno.
“Com’è facile”, ho pensato fra me e me. “E che bello deve essere!”.
Primi morbidi raggi inclinati occhieggiano sopra le umide valli. Il cielo color blu acciaio si è già scrollato di dosso il manto notturno che persiste sopra il piano di Magadino e avvolge prati, boschi e case in madida foschia.

Da molto so ogni cosa sul tempo di oggi. Come un cacciatore con la sua preda, mi sono avvicinato di soppiatto a questo giorno e ai successivi, l’ho accerchiato con previsioni meteorologiche, sviluppi delle correnti aeree, possibili formazioni nuvolose. So che da qui a poco la vista si estenderà all’infinito, che sopra la cresta alpina galleggeranno solo poche nuvole leggere e che nella Svizzera tedesca, a parte qualche cumulo, vigono le migliori condizioni di volo.

Saluti e sorrisi dagli uffici e dalle officine, qualche parola qui, un pacca sulla spalla lì. Tutti sanno che oggi è il grande giorno. Negli ultimi tempi ho assediato l’aeroporto, ho studiato spazi aerei, decifrato NOTAM, fotocopiato carte di navigazione, preso in ostaggio istruttori di volo per estorcere loro tutto il sapere sull’attraversamento più sicuro dei passi alpini, sul sorvolo delle acque e sulle manovre di atterraggio con vento laterale e, alla fine, ho consegnato il piano di volo. Da tutte le parti mi arrivano sguardi di incoraggiamento, mentre l’agitazione sembra fuoruscirmi da ogni poro come una nuvola di vapore caldo.
L’aereo mi fa l’occhiolino dal prato bagnato di rugiada e io gli vado incontro come ad un animale docile che mi aspetta impaziente. Le mie mani scorrono sulle ali, sulla carlinga, sull’impennaggio, controllano ruote, antenne, livello dell’olio. Ci conosciamo bene, abbiamo già fatto diversi giri insieme sopra il lago e le montagne e sappiamo entrambi che da oggi saremo amici per la vita.

Volare. La libertà assoluta. Il sogno di ogni ragazzo.
Prendere un aereo e andare dove si vuole, senza essere legati a strade, norme, forza di gravità. Essere completamente liberi. Vedere il paesaggio dall’alto, sfrecciare nel cielo, sopra le montagne, le città, sopra i fiumi ed il mare, incontro al sole. Arrivare in altri paesi, portati solo dall’aria.
Ho pesato tutte le valige e le borse; ho calcolato e verificato più volte la distribuzione dei carichi che ora dispongo nell’aereo a regola d’arte. Trovare lo spazio, sistemarci i bagagli – pigiama e spazzolino in cima! – poi un ultimo passaggio dai piloti in ufficio, una firma sul registro di volo, la risata dei doganieri alla vista del pallore sul mio volto, pacche sulle spalle da Larry, il mio grande maestro.

Quando il motore si accende e l’aereo si sveglia con un gran frastuono realizzo che ora si fa sul serio. Tutti i sogni degli ultimi anni e i preparativi delle settimane scorse convergono in operazioni semplici e precise, che non c’è più posto per esitazioni né possibilità di ritorno. Le lancette degli strumenti vanno in posizione, il motore gira con regolarità e diffonde nella cabina il suo odore caldo e familiare.

Usch e William vivono a Harkstead, vicino a Ipswich, nella contea di Suffolk, nel sud-est dell’Inghilterra. Lui è poeta, lei ceramista. Insieme ai miei genitori ho trascorso periodi importanti della mia infanzia con loro, nel loro bellissimo Rectory Cottage in piena campagna, tra campi, fiumi, boschi e soprattutto nel loro magico giardino.

Quello che facevo da bambino, insieme a mia madre e mio fratello piccolo, con il treno e la nave da Monaco a Harkstead, era sempre un viaggio pieno di pericoli e paure. Il convoglio che arrivava con qualche minuto di ritardo mi faceva vomitare dall’agitazione nel cestino dei rifiuti più vicino e quando mia madre, con le valige piene di bottiglie di Rum e Whisky per i nostri amici - poiché in Inghilterra il prezzo degli alcolici era proibitivo - sussurrava al doganiere sul treno: “Sssssttt… i bambini dormono!”, dalla paura me la facevo quasi sotto.

“Locarno Ground good morning, Hotel Bravo-Papa Hotel Tango, Parking Alfa, Information Bravo, for VFR flight to England, first leg to Freiburg in Breisgau, ready for taxi”.


La pista 26 davanti a me. “Hotel Hotel Tango, you are cleared for Take-Off”. Tutta la terra si condensa in un’unica striscia. Il mio cuore batte come il giorno del mio primo volo da solo. È come a teatro, prima di entrare in scena. Sai tutto, hai studiato la parte, conosci l’opera, ti sei preparato al meglio: eppure muori di paura prima di entrare in scena.


Ore 9.12, ultimo controllo degli strumenti. La manica vento pende floscia. Ora il sole colpisce le montagne davanti a me, che si infiammano di luce dorata. So che tutto è a posto. Malgrado ciò provo un’esitazione, nella quale, per un attimo, si dissolvono tutte le forze e la fiducia. Poi, sono pronto. Un respiro profondo. La mano decisa spinge in avanti la leva del gas. Rombando il motore fa sentire i suoi 180 cavalli, l’elica diventa invisibile e la forza con cui tira il velivolo mi rassicura. Come dotato di vita propria, l’apparecchio accelera senza sforzo. Qualche cornacchia vola via di lato. 55 nodi. Tiro leggermente la cloche. L’asfalto si stacca dalle ruote, rimane lì, inerme, mentre ci alziamo sopra il Lago Maggiore, verso Brissago e le montagne, Locarno e Ascona già alle nostre spalle. Poi una dolce virata indietro e ottenuto il permesso di salire ulteriormente nello spazio aereo di Locarno, guadagniamo altezza e voliamo nel cielo mattutino pieno di sole in direzione del massiccio del San Gottardo.


L’ago dell’altimetro trema indicando 10.000 piedi. Ci si svelano paesaggi preistorici: profili di montagne scoscese, di un bianco abbagliante, si stagliano contro il cielo blu a perdita d’occhio. Poco sotto di me le rocce si aprono in profonde gole. Ecco il passo! Porto l’aereo oltre la sommità, appena pochi metri al di sopra del passo. Correnti ascensionali e venti discendenti scuotono il velivolo, balliamo un po’. Viro a sinistra, dove il terreno si abbassa rapidamente con la sua strada serpeggiante e ben presto la valle si apre incontro al blu profondo del Lago dei Quattro Cantoni, sulle cui sponde Lucerna si sta svegliando nel sole dorato del mattino.


Un volo da sogno, sopra la Svizzera ancora assonnata, nel cielo quasi privo di nuvole.


Avvicinandoci alla Germania appaiono dapprima alcune nuvole cumuliformi che a poco a poco si addensano, si oscurano e alla fine creano uno spesso strato tra noi e il cielo. Alla nostra sinistra Basilea, attraverso la quale il Reno serpeggia luccicante, ha ripreso la sua produzione di prodotti chimici tra fumi e vapori. D’un tratto ci vengono incontro le propaggini della Foresta Nera. Discesa. Presa di contatto con l’aeroporto di Freiburg, preparazioni per l’ atterraggio. La cartina sulle ginocchia, seguo esattamente la rotta calcolata in precedenza. Oramai le cime dei monti ci sovrastano, l’aeroporto deve trovarsi dietro questa valle, sulla sinistra. Vorrei riguadagnare altezza per riacquistare visione d’insieme e sicurezza ma, se voglio fare il giro sul campo a 2000 piedi, devo scendere ancora. Finalmente esco dalla valle. Ecco la città di Freiburg e la sua famosa cattedrale. Con movimenti febbrili l’occhio cerca l’aeroporto che ci richiama ad ovest della città. La carta di avvicinamento la conosco a memoria: ora cerco di far combaciare i segni sulla mappa con la realtà sotto di me. “You are cleared to land”.     

Scendo in linea retta. Controlli della fase di avvicinamento, flap, giri del motore, velocità. Le orecchie ronzano. La pista si avvicina velocemente. Un attimo prima di atterrare sollevo il muso dell’aereo e, nel momento in cui appoggio con delicatezza le ruote sull’asfalto della pista, mi sfugge un enorme sospiro di sollievo. La prima tappa è alle mie spalle. Settimane, mesi di preparazione sono diventati realtà. Un volo da manuale, il primo passo, il meraviglioso inizio di un viaggio avventuroso.

Pomeriggio a spasso tra le vie di una delle città più incantevoli della Germania. Dapprima la cattedrale gotica, con la “torre più bella della cristianità”, come sembra l’abbia chiamata il famoso storico e scrittore basilese Carl Jakob Burckhardt. Poi l’ Altes Rathaus, il vecchio municipio sulla Franziskanerplatz, il Neues Rathaus, il municipio nuovo, sulla Münsterplatz. Quando con un piede finisco in uno dei “Bächle” - i ruscelli che fin dal Medioevo attraversano la città e che un tempo servivano da rifornimento di acqua e da riserve idriche in caso di incendio e che oggi regalano alla città, in preda al calore estivo, piacevole frescura - una robusta venditrice di frutta mi dice: “Chi inciampa in un ruscello, torna a Friburgo!”. “ Con piacere!”, le rispondo. Un “Flammkuchen”, una crostata locale, per cena sulla piazza del duomo, una birra dorata e quando la sera, stanco morto, compilo il registro dell’albergo, alla voce “veicolo” ridendo scrivo: Piper PA 28, targa: HB-PHT.

Seconda parte, tappa da Freiburg im Breisgau ad Amiens

Come un cavallo da corsa che, nervoso alla partenza, scalpita tentando di tenere a freno la sua voglia di correre, il mio volatile d’acciaio attende impaziente, con tutta la potenza della sua elica, il via libera per lanciarsi a briglia sciolta sulla pista numero 34 dell’aeroporto di Freiburg.

L’aereo rigorosamente lavato, controllato, con il serbatoio pieno e con l’equipaggio accuratamente pettinato, dopo una rincorsa roboante, decolla verso nord e sale in un’ampia virata verso sinistra sopra il Reno, su, nel cielo mattutino d’Alsazia.

Benché guadagniamo bene in altezza, la terra si avvicina. I Vosgi si levano a incontrarci. Ma i calcoli sono giusti, li ho ricontrollati ieri sera a Freiburg, e il motore di 180 cavalli del Piper Archer ci tira in tutta sicurezza oltre le creste dei monti che hanno l’aspetto di un’edizione in miniatura delle Alpi attraversate ieri, costruite in polistirolo e gesso, colorate ad acquarello, gli alberi plasmati con schiuma di mare e i treni a scartamento ridotto fatti passare sopra ponti e attraverso gallerie da un appassionato di modellismo.

Per i piloti, la paura è una compagna costante. La paura di cadere, di perdere il controllo o il senso d’orientamento.

A seimila piedi, dunque a 1800 metri sopra il livello del mare, inizio il volo di crociera. La mia copilota mi lancia un sorriso complice: due camerati dell’aria alla conquista degli spazi del cielo europeo, oggi sulla via per l’Inghilterra verso Amiens, una graziosa cittadina francese a un centinaio di chilometri prima del Canale della Manica.

Seguiamo il corso di fiumi, autostrade, linee ferroviarie, raggiungiamo laghi, città e impianti industriali, sorvoliamo sequenze di colline e vediamo catene di monti in lontananza: innumerevoli punti di orientamento che mi sono annotato sulle carte nelle settimane e nei giorni precedenti la partenza. A Bruyères, dove la linea ferroviaria incrocia la strada statale, virare su 282 gradi; dopo 17 minuti, sopra il radiofaro di Épinal, in direzione 275 gradi, passare accanto allo spazio aereo di Nancy; altri nove minuti più tardi virare sopra Neufchâteau su 294 gradi; dopo 15 minuti, sopra Vitry-le-François – che è il punto in cui la ferrovia, l’autostrada e il fiume Marne si incontrano – seguire il fiume e sorvolare altri 13 minuti più tardi Epernay e dal vicino punto Whisky Sierra, passando accanto allo spazio aereo di Reims, su 334 gradi arrivare al punto November Whisky, senza toccare la zona di controllo parigina che inizia appena qualche miglio a ovest.

E sempre, di nuovo, incredulo stupore di fronte al miracolo di questo cielo che sembra infinito, questo mondo che c’è perché lo vedo, che esiste, come se io non ci fossi.

Vento da ovest.

Piccole città, tutte simili, con la chiesa in mezzo e una piazza, tutt’intorno il centro storico e, più in là, una cintura di palazzi, poi una macchia di industrie e di nuovo campi coltivati, a perdita d’occhio.

Vesoul, Langres, Chaumont, St. Dizier...

Essere libero, volare: è il sogno di un bambino, l’idea di un giovane romantico. Diventando adulti s’impara, ed è probabilmente la più grande delusione nella vita, che la libertà non esiste. O meglio: che non si trova, dove la si cercava. O ancora più precisamente: che c’è, ma che si dissolve immediatamente se non la si riacchiappa al volo.

Alla fine la libertà sta, sì, nell’aria, sui mari, nei viaggi. Ma il suo gusto è diverso dalla libertà dei nostri sogni, perchè per trasformarla in realtà e veramente riconquistarla dobbiamo pagare in valute forti: comodità e sicurezza. È un lavoro enorme e continuo.

L’immensità del cielo. Paesaggi senza limiti. Spazi incommensurabili.

Eppure, esistono frontiere invisibili che attraversano i cieli in gran numero; tagliano lo spazio che sembra così libero, in tutte le direzioni, lo frammentano, lo suddividono in cilindri, fette, e fantasiose forme geometriche, lo definiscono e lo rinchiudono. La più grande sfida di questo viaggio è proprio quella di passare accanto a numerosi spazi aerei limitati o chiusi, di volare sopra o sotto di essi, o, previo ottenimento di un’autorizzazione, di attraversarli dal punto A al punto B.

Il contatto costante con gli organi preposti al controllo della sicurezza aerea, gli annunci di posizione e di intenzione ai centri di controllo del traffico aereo, alle torri di controllo, agli aeroporti militari, mi tengono perennemente occupato. Non c’è praticamente il tempo per tirare un attimo il fiato. Dopo due ore, abbiamo appena attraversato lo spazio aereo di Reims e ci troviamo a est di Parigi. La mia amabile copilota mi porge un caffè e un freiburger Kipferl che sparisce con tale velocità nella mia bocca da farla scoppiare in una grande risata e sussurrare nel microfono: «Chi non sa godersi un Kipferl, non sa godersi la vita». Rido anch’io, cerco di prendermi più tempo per il caffè, ma non è proprio possibile e glielo devo restituire senza aver bevuto neanche un sorso.

«St. Dizier Airport, Hotel Bravo Papa Hotel Tango, Joinville 5000 feet, request crossing CTR». «Hotel Hotel Tango, crossing approved, report Vitry!». «Will report Vitry, Hotel Hotel Tango». Ma dove sarà poi questo Vitry?

Joinville, Chalons en Champagne, Laon...

Il vento laterale aumenta e vengo sempre più deviato dalla rotta. Provo a concepire mentalmente una triangolazione, ricalcolo nuove direzioni di volo per correggere la deriva dovuta al vento impetuoso. Non trovo la cittadina di St. Quentin - un importante punto di riferimento prima di Amiens - benché abbiamo da poco sorvolato il fiume Oise, dietro al quale avremmo dovuto scorgerla. Il vento sempre più forte ci ha spostati troppo. Di colpo la navigazione diventa un problema. Dove siamo? Tento di raggiungere il prossimo punto di riferimento che dovrebbe essere visibile tra quattro minuti. Niente. Campi, boschi. E la strada, laggiù, è l’autostrada che secondo la mia carta dovrebbe portarci a St. Quentin o solo una provinciale messa lì da qualche astuto progettista per confonderci? Persi. Où sommes-nous?

La paura è una compagna costante del pilota. Benché spiegabile senza difficoltà grazie alle leggi della fisica e ampiamente collaudato, il volo resta una sfida alla natura, alle leggi della gravità, alla resistenza dei materiali e, soprattutto, all’infallibilità degli esseri umani, sicura come una vincita alla lotteria. Non è la paura di cadere, di perdere il controllo che ora mi si insinua sotto la pelle, bensì è la paura irrazionale di essere perduto. Perso sotto questo cielo ora coperto, senza orientamento, senza punti di riferimento, senza via d’uscita. Senza speranza. Ma in ogni paura è insita l’opportunità di vincerla: attraverso l’azione. Se si riesce, il guadagno che se ne trae è immenso: quanti mondi che non avremmo mai scoperto, se non avessimo conosciuto e attraversato la paura?

In un’ampia volta salgo a 7mila piedi e tento di far combaciare strade, città, linee ferroviarie con la carta. Due paia di occhi scrutano febbrilmente il paesaggio diventato color grigio piombo.

Finalmente, laggiù! Negli unici raggi di sole che penetrano la buia coltre nuvolosa, ecco luccicante e provvidenziale la Somme che scorre in avventurosi meandri verso il Mare del Nord e che, sul suo cammino, ci consegnerà sani e salvi ad Amiens. Grande sollievo. Indescrivibile gioia quella, dopo lo smarrimento, di tornare a ritrovarsi nel mondo. Quando un unico indizio restituisce l’orientamento e legate a quello, via via, appaiono macchie e linee che trovano riscontro sulla carta; d’un tratto si sa di nuovo dove si è, da dove si viene e dove bisogna andare.

Nei pressi di Péronne viro su 321 gradi e, scendendo di quota, tento di seguire il corso del fiume. Per mantenerlo sulla mia destra, devo tener testa all’impetuoso vento laterale. Davanti a noi, in lontananza, si intuisce già il mare. Grosse nuvole pesanti corrono veloci appena sopra l’orizzonte. Comincio con i preparativi per l’atterraggio. Il bagaglio fissato ben stretto, l’equipaggio allacciato, il serbatoio di sinistra - quello con più carburante - attivato. Controlli del motore e degli strumenti. Discesa.

L’aeroporto non dovrebbe essere difficile da trovare, poco prima della città, appena a est dell’autostrada. A preoccuparmi è sempre il vento laterale, ancora aumentato. Un atterraggio in queste condizioni richiede abilità, mentre io ho ancora poca pratica in atterraggi con vento di traverso.

Dapprima prendo contatto con la torre di Amiens. Ricevo il permesso di atterrare. Richiedo però informazioni riguardo alla velocità del vento a terra. 15 nodi, sono 28 chilometri orari, un valore appena al di sotto di quello massimo ammesso per questo tipo di aereo. Ci proverò. In caso di emergenza: riprendere quota e riprovare.

Ecco la pista! Sottovento: flap primo livello; secondo, e poi giro nella base. «Con vento laterale è necessario arrivare sempre a velocità sostenuta!» sento la voce di Larry, il mio grande istruttore di volo. Flap terzo livello, finale. Giro il muso verso il vento tentando di tenere l’aereo sull’asse della pista mentre si abbassa, di sbieco, verso terra e il vento scuote e spinge. A più riprese accelero per avere una velocità di sicurezza, alla fine però scendo in un angolo perfetto e appoggio l’apparecchio con decisione sull’asfalto. Un po’ troppo a sinistra rispetto al centro, nel vento, ma la pista è larga abbastanza e quando finalmente rallento, la morsa che mi stringeva il cuore di colpo si allenta. Lasciando la pista di atterraggio, un lungo sguardo profondo, di sollievo, passa tra i due piloti. Poco dopo una raffica scompiglia i capelli agli avventurieri che hanno appena conquistato la Francia e sono scesi sollevati dal piccolo aereo, pronti e vaccinati per il salto oltre la Manica.

Terza parte: L’arrivo. Da Amiens a Elmsett presso Ipswich

Colazione ad Amiens. Il forte vento che ci ha dato il benvenuto ieri al nostro atterraggio si è ancora rinforzato: di proseguire il volo, neanche a pensarci. Così girovaghiamo per questa piccola città sul fiume Somme nella quale, durante l’inverno degli anni 338-339, san Martino ha condiviso il suo mantello con il mendicante e in cui Giulio Verne, non solo è stato membro del consiglio cittadino, ma anche direttore dell’accademia delle arti, della letteratura e della scienza: qui Verne ha scritto molti dei suoi romanzi e racconti.

Il centro storico è piccolo e ben presto si erge maestosa davanti al visitatore attonito Nôtre Dame d’Amiens, la più grande cattedrale gotica della Francia. Con la sua torre quadrata di 113 metri, l’altezza della volta di 43 e al lunghezza di oltre 145 metri,  domina l’intera città che sembra esistere solo attraverso di essa. Come ipnotizzati entriamo dall’incredibile portale principale. All’interno del duomo, eretto tra l’inizio e la metà del 13esimo secolo, dal volume doppio di quello di Nôtre Dame di Parigi, ci perdiamo in spazi enormi, tra pilastri compositi, lo sguardo perennemente rivolto in alto, verso la volta a crociera che appare infinita, ammiriamo il meraviglioso coro del primo ‘500 e ci ritroviamo alla fine, con il capogiro, davanti alla testa di Giovanni Battista nel suo reliquiario.

Il vento cessa solo il mattino successivo. Sono sveglio presto e ripasso ancora una volta la rotta e le procedure; il balzo sopra la Manica fino in Inghilterra mi ha fatto inumidire le mani dall’emozione già durante la preparazione del viaggio. All’aeroporto, teso ma pregustando la gioia, rifornisco di carburante l’aeroplano, carico i bagagli, eseguo i controlli esterni e, quanto tutto è pronto, salgo alla torre di controllo per gli ultimi bollettini meteorologici e la consegna del piano di volo. È cortese Mireille, il controllore di volo di turno, anche quando mi informa che non posso decollare se non sono in grado di eseguire lo scambio di comunicazioni via radio in francese. Lei stessa non possiede l’autorizzazione di svolgere le radiocomunicazioni in inglese e la sua collega, Monique, che ce l’ha, arriva solo dopo la pausa pranzo. Smaltiamo la frustrazione facendo acquisti nel locale supermercato.  Un po’ di scorte per il volo, vino e formaggio per Usch e William - i miei amici inglesi che ci aspettano stasera all’aerodromo di Elmsett, vicino a Ipswich - e alle 13.30 in punto mi ripresento la torre di controllo. Monique, che ha dato il cambio a Mireille, constata asciutta che la sua collega è perfettamente in grado di svolgere le procedure in inglese, è solo che si rifiuta di dare l’esame per ottenere la licenza. Strani atteggiamenti in questa Francia, in un aeroporto che dista appena 100 chilometri dalla frontiera con l’Inghilterra. La cosa non preoccupa affatto i due inglesi che sulla rotta verso il nord dell’Inghilterra sono piovuti dal cielo stamattina per fare rifornimento; hanno inviato i loro annunci in inglese e le risposte in francese non le hanno capite proprio per niente, mi assicurano a posteriori, ridendo. “Abbiamo guardato giù. Un aeroporto è lì per permetterci di volare. Perché non sei semplicemente decollato?”

Per la prima volta indosso un giubbotto di salvataggio su un aereo ma anche se non riesco a nascondere una certa agitazione, i due voli fatti per arrivare fin qui mi hanno dato una buona dose di sicurezza. L’aereo diventa come una macchina: alla fine sai ad occhi chiusi dove si trovano le leve e gli strumenti, e le procedure ed i controlli diventano una sana routine.

Amiens ha una pista asfaltata e una erbosa e secondo il regolamento dell’aeroporto decolli paralleli sono espressamente vietati. Annuncio, in inglese, la mia partenza sulla pista asfaltata numero 30 alla torre e agli equipaggi degli altri velivoli. Monique mi dà conferma, ancora uno sguardo intorno e do gas al massimo. Il motore romba, acceleriamo. D’un tratto vedo che il Cessna 172, che poco prima si dirigeva verso la pista erbosa, sta accelerando pure lui, parallelo a noi, a non più di 20 metri alla nostra sinistra. Che fare? Decido di non interrompere la manovra, la pista è troppo corta. Dopo la breve rincorsa i due aerei si sollevano da terra nello stesso istante per virare, poco più tardi, in direzioni opposte. Volo in formazione non previsto, spettacolo per il pubblico a terra, manovra elegante, improvvisata, proibita, pericolosa ma fortunatamente riuscita. Un pasticcio di comunicazione del genere saremmo riusciti ad combinarlo anche di mattina, in francese, con Mireille. Fradicio di sudore faccio un respiro profondo quando abbiamo sorvolato la città con la sua cattedrale che risplende sotto il sole e, seguendo la Somme, saliamo incontro al cielo azzurro in direzione del Mare del Nord.

Laggiù, ecco il mare! Ancora si confondono i tenui contorni ma ben presto la costa si avvicina. Affannosamente i nostri occhi scrutano l’orizzonte alla ricerca dell’isola. Ed eccola, più intuibile che visibile: l’Inghilterra! Secondo i miei piani, giunto sull’estuario viro a nord. Dopo aver attraversato la zona controllata dall’aeroporto di Le Touquet, sopra Cap Griz-Nez, viro verso est, in direzione dell’aeroporto di Lydd, ormai sopra il mare. Da qui a Dover il Canale della Manica è largo solo 34 chilometri. Batticuore, le solite mani bagnate. Certo, il motore non sa che sta sorvolando l’acqua – cosa mai potrebbe succedere? Inoltre abbiamo preso abbastanza altezza da poter, in caso d’emergenza, planare almeno fino sotto costa. Primo contatto con la centrale di controllo di volo inglese, che ci dà il benvenuto. Sotto di noi c’è un vivace traffico marittimo: petroliere, porta-container che vanno e vengono dall’Atlantico al Mare del Nord, e frammezzo, qua e là, minuscoli punti bianchi, le barche a vela. A destra, più a nord, biancheggiano le scogliere cretacee di Dover ma io mi devo dirigere verso la baia nella quale, ad un certo punto, dovrebbe mostrarsi la pista di Lydd, lunga diversi chilometri.

In Inghilterra, chi arriva dal continente è obbligato a dirigersi ad uno scalo con servizi doganali prima di poter riprendere il volo a destinazione di un aeroporto minore dell’isola.

“Clear to land!” Atterraggio a Lydd su una pista chilometrica destinata ai Jumbo. Non devo frenare altrimenti non arriveremo mai alla prossima uscita! Formalità doganali e poi, per non fare tardi, riprendiamo subito il viaggio per Elmsett presso Ipswich.

Decollo sull’interminabile pista 03 in direzione nord-est, lungo il mare. Spettacolari mucchi di grosse nubi inframmezzati dal blu del cielo. Salgo fino al loro limite inferiore. Ho scelto la rotta sopra Canterburry per ragioni romantico-letterarie. Un’infinità di baie, campi estesi, un paesaggio da favola, completamente diverso da quello francese, solo cento chilometri più a sud. Poi ci avviciniamo alla foce del Tamigi: una marea d’acqua che si trascina verso il mare nel suo ampio delta. A ovest, alla nostra sinistra, pesante, scura, enorme: Londra. Panorami eccezionali, l’improvvisa consapevolezza che questo volo è la ricompensa per tutto il lavoro, i preparativi, le paure. E nello stesso istante: la libertà. D’un tratto, eccola qui, la libertà di cui ho sognato al pensiero di volare. In un solo momento si dissolve la corazza imposta dalla tecnica, dalla comunicazione e dalla progettazione e dirigo, divertito, il mio uccello d’acciaio parallelamente alla costa inglese, attraverso nuvole, sopra paesaggi irripetibili in una luce quasi irreale.

Chatham. Southend-on-sea, Colchester.

Ora ci dirigiamo vero Ipswich e poco prima del bivio autostradale, dove una linea ferroviaria abbandonata conduce verso nord-est, devo virare a sinistra su 325 gradi per veder apparire, dopo quattro minuti, l’aeroporto di Elmsett, un piccolo campo d’aviazione privato.

Ho contattato la Royal Air Force già da un po’. Elmsett è situata nella zona di controllo di Wattisham, una base militare. Mi viene attribuito un codice transponder per i radar e ricevo il permesso di entrare nello spazio aereo della RAF.

Ecco, la linea ferroviaria senza binari: la direzione è quella giusta. Ma l’aeroporto? Dove si trova l’aeroporto? Solo campi e prati. Mantengo la rotta. Secondo la carta dovremmo averlo già sorvolato e ci staremmo dirigendo ora verso l’aeroporto militare. Deciso, viro di 180 gradi e sorvolo di nuovo la zona: niente. Campi, prati, boschi e un po’ più in là la città di Ipswich. Non ho perso l’orientamento, è l’aeroporto ad essere introvabile. Le mie manovre di ricerca non sono sfuggite ai controllori di volo militari sul radar di Wattisham: “Hotel Hotel Tango, comunica posizione e intenzioni.” Posizione presso Elmsett, 2’000 piedi ma non trovo aeroporto” . Dopo un attimo richiama: ”Vira su 322 gradi, campo d’aviazione a 5 miglia diritto davanti”. Due paia di occhi cercano affannosamente. Nient’altro che prati e ancora prati, nessun aeroporto in vista. Al limite della disperazione guardiamo giù verso le ampie distese verdi. Poi la comunicazione: ”PHT, siete sopra la pista.” SOPRA? E solo ora vedo la manica a vento, e adesso che l’occhio lo sa, in mezzo al prato, in mezzo ai campi infiniti si delinea una pista erbosa. L’abbiamo sorvolata diverse volte senza riuscire a riconoscerla. E lì, ad aspettarci a bordo pista già da un po’, Usch e William, i miei amici.

Faccio un giro di ricognizione, preparo l’atterraggio. Poco dopo l’aereo si posta saltellando sulla pista erbosa.

Benvenuto festoso, baci e abbracci. Scaricati i bagagli, il formaggio e il vino, ci dirigiamo verso l’auto che ci attende e ci condurrà nella loro splendida casa a Harkstead. Non senza un ultimo sguardo al nostro aeroplano, ora saldamente assicurato a terra, che lasciamo felici e un po’ increduli. Ed ecco cadere le prime gocce di pioggia.

Dopo due favolose settimane in un mondo incantato, dopo interminabili passeggiate attraverso paesaggi di un John Constable e cream teas con scones, burro, marmellata e clocked cream, dopo innumerevoli bitter e pale ales in romantici pub guarniti con vaporose e colorate ghirlande di conversazioni su letteratura, sull’arte di vivere e di amare, su politica, teatro, musica e scrittura, si avvicina il momento del congedo.

L’Inghilterra, come dice felicemente Lord Byron, è il paese “in cui l’inverno finisce in luglio e inizia in agosto e nel quale le pittoresche nuvole di pioggia sono sospese tanto in basso da poterle afferrare con le mani” e così tentiamo di trovare nelle previsioni meteo una finestra di sole o almeno una coltre di nubi sufficientemente alta da lasciarci abbastanza spazio tra cielo e terra per il volo di ritorno.

Carte di volo, NOTAMs, plotter, calcoli di rotte e di peso coprono il pavimento del sitting room del Rectory Cottage, nel quale, in molte di queste sere d’agosto, già arde un fuoco nel caminetto a conferma delle irridenti battute di Lord Byron.

Le mani diventano di nuovo umide nella pianificazione della rotta e dell’attraversamento della Manica e alla fine arriva il giorno dell’addio. Malgrado grossi annuvolamenti Il tempo sembra stabile. Usch e William, gli amici nel cui giorno delle nozze, quasi mezzo secolo fa, fui concepito, dopo una gustosa cena d’addio con pies e delizioso arrosto di agnello con limone e foglie di menta e una successiva notte irrequieta, ci accompagnano all’aeroporto di Elmsett.

Dorme ancora il nostro uccello d’acciaio, saldamente assicurato a terra, con il muso che punta verso nord. Lentamente lo sveglio, sciolgo le corde, pulisco i vetri dalla rugiada, controllo elica, carrello, timone e antenne.

Il bagaglio viene trasbordato dall’auto all’aereo, i vasi, le tazze e le scodelle di porcellana provenienti dall’atelier di Usch sono stivate con cura. Ultime formalità e preziosi suggerimenti per la rotta di partenza ci vengono date dall’amabilissimo capo dell’aeroporto che durante queste settimane ha tenuto un occhio vigile sul nostro HB-PHV. Forti abbracci degli amici, la magia del tempo trascorso insieme volge al termine. Ci lasciamo. Buon rientro!

Il motore si avvia. Gli strumenti si animano, le lancette vanno in posizione e tutte le emozioni fanno un passo indietro per lasciare il posto ad una limpidissima concentrazione. Tutti i controlli eseguiti, il bagaglio è assicurato, i passeggeri pure. Sobbalzando rulliamo verso la pista erbosa. Contatto radio con la torre della Royal Air Force situata nel vicino aeroporto militare di Wattisham, permesso di decollo. Ultimi controlli, poi spingo la leva del gas fino in fondo. Lentamente l’aereo carico prende velocità, saltella sulla pista erbosa in lieve salita finché, a 55 nodi, tiro la leva di commando e il muso si alza verso il cielo mattutino cosparso di nuvole. Durante la salita viriamo lentamente verso sud-ovest.

Paesaggi inglesi macchiati dall’ombra delle nuvole: vasti campi e boschi, villaggi rossi, il traffico a sinistra impartisce alla terra una torsione nella direzione sbagliata. Mantenendo la costa alla nostra sinistra, ben presto ritroviamo l’ampio estuario del Tamigi che sotto di noi si riversa nel Mare del Nord e che alla nostra destra porta dritto in una scura ed enorme Londra, un insaziabile mostro che si stiracchia pigro nella foschia di questa mattina d’estate.

La nostra prima tappa è Lydd, poiché dobbiamo di nuovo fare scalo in un aeroporto con servizi doganali. Ci dirigiamo verso sud, tenendoci appena sotto il limite delle nuvole. Poco dopo riusciamo a vedere la costa della Manica ed ecco la lingua di terra di Lydd. Si distingue la pista lunga un chilometro e mezzo. Preparativi, contatto radio, permesso di atterraggio. Con l’abilità di un professionista eseguo procedure e controlli, porto l’aereo sottovento e un attimo dopo lo appoggio delicatamente sull’asfalto.

Una mezz’ora più tardi ci ritroviamo sulla pista, pronti per il decollo. Abbiamo fatto il pieno, abbiamo liquidato le formalità: ma siamo preoccupati. C’è foschia, qui sul mare, e la visibilità, tra sei a sette chilometri, è al limite per una traversata della Manica. L’unica è tentare. Per molto tempo dopo essersi alzato, l’aereo prende quota sopra la quasi interminabile pista 03 di Lydd. Poi viriamo verso est, sul mare. La visibilità è critica. È l’orizzonte a permettere al pilota che vola a vista di orientarsi nello spazio e che gli dice in quale assetto di volo si trova. Però adesso, cielo e mare si fondono in un’impenetrabile foschia, un’unica massa grigio-blu, che non lascia nessun punto di riferimento. Di colpo riconosco il pericolo e nello stesso istante inizio la virata di 180 gradi. Solo quando poco dopo la costa inglese riemerge nel campo visivo ritorna la sicurezza. Non ci rimane che ritornare e atterrare.

Poco dopo ci ritroviamo nei saloni dell’aeroporto, insieme ad altri equipaggi che come noi volevano passare dall’altra parte, gli sguardi fissi sugli schermi della meteo. Sembra che la visibilità oggi non migliorerà e ad un certo punto, mezzogiorno è passato da un pezzo, ci rassegniamo a pernottare. È alta stagione, qui nel Kent. Gli alberghi della città sono al completo e così non ci resta che chiamare un taxi e farci portare a Hastings dove, in un albergo di campagna sopra un pub, troviamo ad aspettarci una minuscola camera.

Passeggiate al mare. Due birre. “In solitario“ di Roald Dahl.

La mattina dopo diamo uno sguardo  speranzoso dalla finestra. La foschia tra cielo e terra c’è ancora, ma le previsioni sono ottimistiche. Prepariamo le nostre cose e dopo una colazione a base di sanguinacci e uova in camicia raggiungiamo l’aeroporto. Secondo le previsioni la visibilità è migliore di ieri. Poco dopo il nostro piccolo apparecchio decolla. Prendiamo quota sopra il mare, gli occhi febbrilmente alla ricerca di un punto di riferimento. Effettivamente la situazione è meno critica di ieri ma di nuovo l’occhio perde l’orizzonte e di nuovo il cielo e il mare si fondono in un’unica salsa omogenea. Di colpo mi rendo conto del pericolo che ci minaccia e di riflesso viro via. Solo la vista della costa inglese mi restituisce la sicurezza. Poco dopo riatteriamo a Lydd, frustrati. Magari piloti esperti si sarebbero fidati dei loro strumenti, si sarebbero attaccati per un quarto d’ora al loro orizzonte artificiale finché la costa francese non fosse apparsa dalla nebbia. Ma la paura è qualcosa di irrazionale. Malgrado ciò, o forse proprio per questo, è importante darle ascolto, fidarsi di lei. Qualche settimana più tardi racconto ad un amico, un pilota di linea, della nostra frustrante avventura sopra la Manica e dei nostri vani tentativi di sorvolarla, quando lui mi batte la mano sulla spalla e mi racconta di come la Luftwaffe tedesca abbia già perso più di un aereo da combattimento sopra la Manica a causa proprio del vertigo, la perdita dell’orientamento per la mancanza di orizzonte. E che una delle vittime più famose di questo fenomeno, John F. Kennedy Jr., in un volo a vista è precipitato di notte nell’Atlantico con la giovane moglie e la cognata. Mentre attraversava un braccio di mare la foschia ha fatto sparire la linea tra acqua e cielo e si  è ritrovato a sfrecciare attraverso spazio e tempo senza alcun controllo sul suo assetto di volo.

Nel pomeriggio, dopo un pranzo noioso, la carta meteo mostra una visibilità di quasi dieci chilometri. Un altro tentativo. Teso come non mai, tiro su il muso dell’aereo e saliamo sopra il mare. L’acqua e il cielo sono ora di un blu diverso: il mare oleoso, l’aria plumbea, e nel momento in cui minacciano di mescolarsi come acquarelli su un foglio di carta, appaiono alcune nuvole a formare un pezzo di orizzonte, probabilmente sopra la costa francese. D’istinto mi dirigo verso questo unico punto di riferimento. I brevi momenti di panico si dissolvono, mi distraggo controllando gli strumenti, prendo contatto con i controllori di volo francesi. Le nuvole diventano più nitide, e finalmente, dopo un tempo sembrato eterno, appare la sottile linea della costa. Comunque non è una buona idea quella di prendere come riferimento le nuvole: d’un tratto mi accorgo di aver volato un corso completamente diverso da quello che avevo previsto e di essermi spostato molto più a est di quanto pianificato. Valuto la differenza e aggiusto la rotta verso la mia vera meta, Cap Griz Nez. Finalmente raggiungiamo la costa. La foschia pesa sul paese come un casco su una testa fresca di permanente e mi costringe ad abbassarmi. Prendo corso su Amiens. Ma la visibilità peggiora di minuto in minuto mentre voliamo verso l’entroterra. Devo abbassarmi ancora finché mi decido ad interrompere il volo e ad atterrare nell’aeroporto più vicino. Riprendo la direzione della costa, controllo le carte e mi preparo per l’atterraggio a Le Torquet.  Le carte verificate, la frequenza regolata, prendo contatto con la torre. Dopo un giro di attesa arriva il permesso per l’atterraggio. Il velivolo tocca delicatamente terra. Ci aspetta un marshaller che in sella alla sua bicicletta ci fa strada fino al nostro parcheggio. Poco tempo dopo anche noi ci troviamo in sella ad una bicicletta, l’indispensabile in un piccolo zaino, diretti al centro di Le Torquet,  incontro ad una tanto imprevista quanto romantica serata a lume di candela, con montagne di frutti di mare e vino bianco eccellente, sotto un cielo estivo dalla cui calda foschia, con tenace lentezza, sale una sempre più limpida luna piena.

Le Touquet Paris-Plage, Parigi sul mare, è una di quelle località in cui si capita solo per caso, a meno di essere golfista, pilota di moto enduro o flaneur. Sabbia della più fine ricopre i dodici chilometri di spiaggia e in estate mezza Parigi si riversa in una cittadina che in inverno conta solo 5.000 abitanti. Ora, a fine agosto, la stagione è già passata ma ci occorre lo stesso una buona dose di fortuna per riuscire ad accaparrarci una piccola camera d’albergo. Estese passeggiate sabbiose lungo il mare, lontani dal trambusto mondano, la sera un posticino intimo sulla terrazza di uno dei numerosi e affollati ristoranti di pesce. Un pomeriggio meraviglioso e inatteso, imbevuto di aria e di mare, e una serata romantica al chiaro di luna, con crostacei, vino bianco e tiepida aria estiva condita con profumi marini.

Su! Su! Il sole si spinge già oltre l’orizzonte, la città si risveglia alla vita! Mentre i turisti giacciono ancora nei loro letti, esausti dalla notte, gente indaffarata si affretta verso la boulangerie, ne esce con mazzi di flûte sottobraccio e corre verso casa, trattenuta qui e là da due chiacchiere. Qualche furgoncino passa a fatica nei vicoli, la metà di un manzo scompare in una macelleria, casse di polistirolo piene di pesce e crostacei vengono portate attraverso porte a vetri aperte, le saracinesche dei caffè si alzano una dopo l’altra sferragliando. Sono i momenti in cui si svolge la vita vera in queste località turistiche, in cui gli abitanti sono tra di loro per un’ora o due, prima di essere risommersi per tutto il resto del giorno e buona parte della notte dall’onda degli stranieri che riempiono di soldi le loro casse.

Ancor prima che il sole abbia iniziato a scaldare la terra, ci ritroviamo in sella alle nostre biciclette e voliamo nella tiepida aria mattutina verso l’aeroporto. Poco dopo, le tasse di sosta pagate, i preparativi ultimati, le ali piene al massimo di carburante e l’equipaggio di buon umore, l’HB-PHT si solleva dalla pista 32 verso il mare, per poi virare in un’ampia curva a destra di nuovo verso la terra ferma, librandosi nel cielo verso sud-est, sopra il paesaggio francese ancora assonnato. Dapprima seguo il fiume Canche verso l’interno. Sopra Hesdin, raggiunta l’altitudine di crociera di 5.000 piedi, scambio il suo corso con quello dell’autostrada che da lì a poco, insieme alla linea ferroviaria, mi porta sopra Arras, nello spazio aereo del poeta tra i piloti, Antoine de Saint-Exupéry, che qui combatté le sue battaglie aeree contro la Luftwaffe tedesca. Il suo romanzo “Volo ad Arras” fa parte delle letture obbligate per ogni uomo dei cieli. La mia missione, per fortuna, è più pacifica di quella di Saint-Exupéry: la ragione principale per la rotta sopra Arras è la possibilità di evitare contemporaneamente lo spazio aereo di Parigi a sud e di Lille a nord.

Orientarsi, fin qui, è stato facile; l’occhio, e soprattutto il cervello, impara con il tempo a leggere i paesaggi come un bambino impara leggere i libri. Se all’andata ero ancora agitato nel far combaciare le carte con i paesaggi, ora riconosco facilmente il fiume dai boschetti stretti che crescono lungo le sue sponde e nascondono le sue acque, le piccole città dalle strade che vi convergono e i minuscoli, timidi tracciati della ferrovia che ogni volta, appena li ho acciuffati, tornano a nascondersi in qualche sottopassaggio.

Arras.  A Sinistra, in lontananza, si distingue appena Lille. Seguo l’autostrada in direzione sud-est fino ad Ambrai, viro a sud e trovo il fiume St. Quentin che ci porta, venticinque minuti più tardi, sopra l’omonima cittadina. Da qui, seguendo ancora l’autostrada, a 160 gradi verso Laon, facilmente riconoscibile dal grosso aeroporto militare fuori uso alle porte della città, dove viro verso sud. Due croissant per due sorridenti viaggiatori dell’aria. Ricevuto il permesso di attraversare lo spazio aereo di Reims, eseguo i  preparativi e a 2.000 piedi  compio la virata verso il punti di riferimento e di contatto November Whisky, poi Whisky e per finire Whisky Sierra, da dove lasciamo l’area.

Più procediamo verso l’interno e avanza l’ora, e più diminuisce la visibilità. Foschia ricopre il cielo e si infiltra tra noi e il suolo, la luce del sole coagula in una melassa gialla che pende appiccicosa e densa sopra il paesaggio. Tento di seguire la Marne ma l’orizzonte si avvicina sempre di più e si dissolve progressivamente tanto che si distinguono appena le anse del fiume proprio davanti a noi. Lo sguardo non riesce ad andare oltre qualche miglio. Ancora pochi minuti e il resto del mondo annega in una zuppa di un giallo feroce fatto di luce, nuvole e nebbia. La decisione è presa in un attimo, senza esitazione: dobbiamo interrompere il volo. I passi da intraprendere mi si parano davanti con assoluta chiarezza. Viro verso nord a 350 gradi, prendo contatto con la torre di Reims e chiedo il permesso di atterrare. La carta di volo l’ho già studiata in previsione del passaggio, ora si tratta di trovare i punti di riferimento per l’atterraggio. Controlli in vista della discesa; quasi automaticamente le mie mani accendono la pompa della benzina, le luci d’atterraggio, controllano la leva della miscela e il riscaldamento del carburatore, fanno uscire i deflettori: primo livello, secondo livello e per finire, appena prima dell’ultima virata e dell’immissione nel corridoio di atterraggio, terzo livello. Vividamente illuminata la lunga pista emerge dall’ostile foschia, le luci API , sempre due bianche e due rosse, mi assicurano l’angolo di discesa corretto. In un attimo l’apparecchio si posa e, sollevati, ci dirigiamo verso l’area di sosta davanti all’hangar.

Siamo di nuovo arenati.

Non rimane che l’attesa. Il capo-aeroporto ci accoglie ridendo: “Perché non ve ne andate in città a bere una coppetta di Champagne?” Con un sorriso amaro gironzoliamo per i saloni dapprima alla ricerca degli schermi della meteo poi al bar per un altro giro di caffè e croissant. Ci possono volere ore prima che questa foschia si dissolva.  Dispiego le carte e studio la prossima rotta. Fino a Locano sono ancora quattro o cinque ore di volo, chissà se ce la facciamo in giornata. Carburante oggi qui non ce n’è: la pompa è guasta. Dunque dovrò atterrare almeno un’altra volta per fare rifornimento. Di tanto in tanto esco nella calura che sale: il sole splende come la luna, un disco la cui circonferenza si staglia dietro uno spesso strato di foschia che pesa e preme sul mondo e sul nostro umore. Le previsioni promettono un miglioramento tra due ore, nel primo pomeriggio il cielo dovrebbe schiarirsi e la visibilità salire dapprima a sette poi a dieci chilometri. Poco dopo un pranzo insipido, un pezzo di carne dura e patate fritte flosce: non si direbbe che siamo finiti proprio in Francia, nel capoluogo della Champagne. Vado a zonzo per l’aeroporto, mi infilo nell’hangar, giro tra tutti i Robin, Socata e Cessna, questi ultimi costruiti qui a Reims, parcheggiati o appesi;  le mie mani sfiorano ali, timoni, eliche, gli occhi leggono le scritte sopra gli strumenti nei cockpits e l’anima vola con i proprietari di questi uccelli in interminabili e avventurose volte nei cieli di Francia.

Poi, cinque ore dopo il nostro atterraggio forzato, il cielo si schiarisce davvero. Un leggero vento sospinge via la foschia. Riponiamo i nostri libri, compriamo ancora una tavoletta di cioccolata e ben presto l’HB-PHT prende la rincorsa e si libra nell’aria opaca dietro alla quale ci accoglie gioiosamente uno splendido cielo azzurro da tarda estate. Sono quasi le quattro.

Presso Chalons en Champagne acchiappo la Marne, il fiume che passando da St. Dizier, Chaumont e Langres ci condurrà a sud e che molleremo quasi due ore più tardi a nord-est di Dijon per attraversare la Saone presso Gray e fare rotta su Besançon. Che volo! Appena lasciata Reims, davanti a noi si dipana nella calda luce pomeridiana uno splendido paesaggio francese. I colori sono resi più brillanti dai raggi del sole ormai obliqui, i fiumi e i laghi luccicano, risplendono le città e i campi maturi e pesanti, respirano i boschi oscuri.

L’aeroporto di Besançon, dove vogliamo atterrare per rifornirci di carburante, si trova nascosto tra le prime colline del Giura, dietro la città. Besançon l’ho sorvolata, sto attraversando il suo fiume Doubs, sono in contatto con l’aeroporto e ho già il permesso per atterrare ma … dove? Finalmente, dopo un momento di confusione sembrato eterno, la pista fa capolino laggiù, tra due catene di colline. Mi allineo nel traffico e poco dopo, mancano dodici minuti alle sei, un piccolo scossone e l’HB-PHT ha di nuovo l’asfalto sotto le ruote. Fate presto, esclama il responsabile. Alle sei l’aeroporto e il rifornitore chiudono e se volete proseguire dovete essere in aria prima delle 18.00. Il rifornimento è presto fatto ma è il terminale della carta di credito che sciopera. Di corsa torno all’aereo dall’altra parte del piazzale, prendo i contanti, vado a pagare, ritorno. Controlli rapidi, accensione del motore e di nuovo in pista: alle 18.04 (e chi sarà mai così pignolo), a 55 nodi le ruote si staccano da terra. Quando siamo ad altezza sufficiente al di sopra delle colline boscose, viro in direzione 110 gradi verso sud-est. Panorama spettacolare offerto le montagne di media altezza immerse in una luce incredibilmente calda e dorata, in questo inizio di serata di fine estate.  La terra sale e così salgo anch’io fino a 7.000 piedi per oltrepassare, poco dopo, la cresta più alta del Giura.

Ben presto raggiungiamo la Svizzera.

L’aeroporto militare di Les Eplatures non è più aperto a quest’ora, ma mi annuncio lo stesso per l’attraversamento della zona da esso controllata. Breve e amichevole conversazione con il controllore: buona continuazione del viaggio e buona serata! E come a voler contribuire alla realizzazione del buon augurio ecco che il Lac de Neuchâtel si offre ai nostri occhi nella maniera più spettacolare, stiracchiandosi nella sua pittoresca larghezza, stanco della lunga e calda giornata estiva, nel sole dorato della sera. Accanto a lui il fratello minore, il Bielersee, sospinge l’ultima vela in porto e io mi dirigo dritto verso il Röstigraben che, come scopro solo ora dall’alto, in realtà non è un fossato bensì un rilievo che divide i due laghi fratelli e insieme ad essi due delle grandi lingue e culture della Svizzera.

Forse sarebbe possibile continuare fino a Locarno ancora oggi ma la torre di controllo di Berna mi passa i più recenti sviluppi della meteo che mettono in guardia da violenti temporali a sud del San Gottardo. Così decidiamo di concludere, a Berna, in dolcezza, la lunga e avventurosa giornata che ci ha portato dalla costa settentrionale della Francia fino alle Alpi. Bern-Belp è stato il luogo di arrivo del mio primo volo Cross-Country compiuto in solitaria, un’avventura compiuta alcuni anni fa che mi ha fatto sudare. Volare per la prima volta da solo, contando unicamente sulle mie forze, attraverso il territorio montuoso, atterrare dall’altra parte della Svizzera e riportare a casa me e il velivolo, è stato una specie di iniziazione, una vera e propria prova di coraggio, davanti alla quale quello che avevo fatto prima sbiadiva, il passo definitivo nell’età adulta, il diventare uomo a tutti gli effetti.

Ora sono felice di ritornare in un aeroporto ormai familiare, che ci aspetta a sud della città nella luce del tramonto, viro in avvicinamento e poi in posizione per l’atterraggio sulla pista 32 e con un sorriso appoggio la nostra fedele macchina volante sull’asfalto caldo.

La mattina dopo, un grosso temporale ha investito Berna durante la notte, siamo pronti per l’ultima tappa. Dopo un’abbondante colazione ci ritroviamo unici passeggeri del grosso “AirPortBus” che ci porta fuori, all’aeroporto, passeggiamo con scioltezza e come veri piloti nel grande salone delle partenze semi-deserto, nell’ufficio C paghiamo le tasse di sosta dell’HB-PHT, mi faccio dare le condizioni meteo per l’attraversamento delle Alpi, consegno, come sempre, il piano di volo e ben presto il nostro aereo si ritrova come un cavallo sulla linea di partenza, scalpitando, con l’elica che tira, sulla soglia della pista numero 14. Ready for take off!

Il cielo, ripulito dalle forti piogge della scorsa notte, ci accoglie con un azzurro luminoso come non lo abbiamo più visto da tempo. Invece di scegliere la rotta classica del San Gottardo, prendendo quota viro in modo continuato verso sud-ovest, in direzione di Friburgo, lungo la Sarine a Gruyères e da lì, seguendo il fiume verso Gstaad. 10.000 piedi: la quota sicura per il superamento del passo. Imponenti si ergono accanto e davanti a noi le Alpi, mentre qua e là, sopra una cima o l’altra, si vanno formando dei piccoli cumuli. Enormi pareti a strapiombo sovrastano la valle, dove una minuscola strada serpeggia accanto alla ferrovia lungo un piccolo fiume. Ecco Saanen, con il suo aeroporto, e Gstaad! Qui viriamo a destra, puntando dritto a sud a 185 gradi per sorvolare la catena delle Alpi Vallesane sul passo del Sanetsch. Momenti spettacolari a 3.300 metri sopra il livello del mare: due minuscoli esseri umani in un ridicolo apparecchio volante, come una mosca tra le gigantesche creste e cime alpine. Una grandiosità che fa sorgere in me la sensazione della nostra nullità, del nostro essere insignificanti, una sensazione tanto benefica quanto spaventosa, uno sguardo purificatore sulla propria piccolezza di fronte all’infinito del mondo.

Mamma mia!  Un’enorme parete rocciosa si erge davanti a noi. Solo al centro si abbassa un po’ per lasciarci lo spazio per scavalcarla – è il passo del Sanetsch. Venti ascendenti e discendenti scuotono il nostro fragile veicolo, ma ho abbastanza riserva di quota così che la raffica che all’improvviso ci afferra da dietro non fa altro che spedirci al di là. Per un attimo trattengo il respiro: appena siamo dall’altra parte della cresta, le pareti precipitano giù nella Valle del Rodano. Il Vallese ci si apre davanti di colpo, sotto di noi Sion e laggiù in lontananza, a sinistra, ben visibile, Briga. Dritto davanti, nitido, enorme, coperto di neve, si staglia nello splendido cielo blu del mattino il massiccio del Monte Rosa, con Cervino, Breithorn, Monte Rosa e Rimpfischhorn. L’aeroporto di Sion mi concede il sorvolo a 10.000 piedi. Continuo dritto per raggiungere l’altro lato della valle, poi viro a est e dirigo verso Briga, dove ci aspetta il passo del Sempione. “Un po’ di cioccolata di Reims?” mi sussurra la mia deliziosa co-pilota e due esseri felici e leggeri come l’aria sfrecciano per il cielo, sopra le montagne, nel blu infinito; come in quei sogni di bambino, i cinque anni appena compiuti, quando si lascia la terra, liberi da ogni gravità, per librarsi nell’aria, senza limiti, seguendo nient’altro che la fantasia, volando sopra il mondo e fino al sole e ritorno.

Briga. Virare a destra, verso sud. In pochi attimi il terreno sale ripidamente, scoscese pareti si ergono davanti a noi all’improvviso. Le Alpi sono tanto spaventose quanto belle e riesco ad immaginare gli incubi dei primi avviatori che hanno tentato di superare questi passi,  valichi e creste, nei quali è insito, oltre alla bellezza dello spettacolo offerto dalla natura, anche l’orrore. Dopo qualche minuto ci viene incontro il Monte Leone. Mi tengo a destra finché appare finalmente il passo del Sempione che dall’alto ha l’aspetto di una grigia pietraia, nel bel mezzo di pareti rocciose, scure, nefaste e aguzze. Sono passati solo cento anni dal primo sorvolo delle Alpi, avvenuto proprio in questo punto: Hugo Chavez, giovane pilota e avventuriero con un talento naturale per il volo, nato in Perù e cresciuto a Parigi, nel 1910 riuscì per la prima volta a sorvolare il passo del Sempione a bordo di un Blériot azionato da un motore da 48 cavalli, a sette cilindri, con forti venti contrari e dopo un tentativo andato a vuoto. Poco prima dell’atterraggio a Domodossola però, si staccarono i longheroni delle ali, allentati probabilmente dai venti di eccezionale forza incontrati sul passo, e precipitò come un sasso dall’altezza di 12 metri. Morì pochi giorni dopo a seguito delle gravi ferite riportate. Ma per questo grande viaggio ho noleggiato una versione più potente del Piper PA-28A e così i suoi 181 cavalli ci portano con tranquillità e in sufficiente quota oltre questo ultimo grosso e scuro ostacolo.

Ben presto il terreno dirada. Accanto a noi rimangono, come un pittoresco indice alzato, alcune rocce aguzze e poi, dopo una curva a sinistra, ci si spalanca davanti la Val d’Ossola. Quando viro a est prima della città e mi addentro nelle Centovalli iniziando la discesa realizzo di colpo: stiamo tornando a casa. Le orecchie schioccano. Sopra Intragna, primo contatto con la torre di controllo di Locarno, dopo Tegna un’ampia virata sopra il Lago Maggiore e quando mi allineo alla pista a 2.000 piedi per l’atterraggio non riesco a capacitarmi di quanto le manovre e le procedure siano ormai rodate e mi vengano naturali.

Solo pochi minuti più tardi il ronzio famigliare del motore tace, l’elica è ferma. La portiera dell’HB-PHT si spalanca e due aviatori increduli e stupiti scendono sorridenti dall’apparecchio. Siamo tornati. Il Piano di Magadino risplende in blu e verde, i primi passi sotto i piedi, il profumo famigliare di tarda estate ticinese, un miscuglio di aria di montagna, sole e castagneti. Benvenuto. Strette di mano. Bentornati a casa! Ottengo il permesso di arrivare con la macchina fino all’aereo per trasbordare più comodamente i bagagli. I vasi, le tazze e le ciotole di porcellana dall’atelier di Usch a Harkstead, pensando ai quali mi sono dato particolarmente pena durante gli atterraggi programmati e non, vengono trasferiti nel cofano insieme a un numero indefinito di vasi di marmellata di arance, Lemon Curd, Mint Jelly e Mango Chutney, qualche bottiglia di birra Adnam’s Bitter, senza dimenticare l’edizione quasi centenaria di opere shakespeariane, scovata da un antiquario a Ipswich.

Come in un sogno dal quale non ci si vuole svegliare, dirigo la macchina da Locarno verso Lugano. Sulla vecchia strada del Monte Ceneri, prima di arrivare in cima, mi fermo sulla curva. Scendiamo dall’auto e il nostro sguardo sorvola il Piano di Magadino e il Lago Maggiore, si spinge più in là, al di là delle montagne, verso Berna, Reims, Le Toquet, oltre la Manica, fino a Harkstead.

Se è vero il vecchio proverbio cinese secondo il quale un sentiero si crea dove qualcuno lo percorre, allora il cielo è di colui che lo attraversa volando. Per sempre.

L’ultima avventura
  1. Prima parte, la partenza. Da Locarno a Freiburg im Breisgau
  2. Seconda parte, tappa da Freiburg im Breisgau ad Amiens
  3. Terza parte: L’arrivo. Da Amiens a Elmsett presso Ipswich
  4. Quarta parte, il ritorno: tappa da Elmsett a Le Touquet
  5. Quinta parte, il ritorno: tappa de Le Touquet a Besançon
  6. Sesta e ultima parte, il ritorno: tappa da Besançon a Locarno